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Eugenio Montale

A partire dalla sua prima opera, gli Ossi di seppia del 1925, Montale decide di prendere parte a una linea poetica che apre la poesia alla prosa, alla realtà quotidiana, ricercando un linguaggio scabro ed essenziale. Al tempo stesso, come avviene in altri poeti di inizio Novecento a lui vicini, sente la necessità di confrontarsi con la realtà circostante ormai priva di certezze, con la sua condizione di uomo e di poeta, consapevole che la poesia non può essere disgiunta dall’indagine. Lontano dalla ricerca della parola assoluta ungarettiana, nella sua volontà di conciliare i segni della modernità con la tradizione, egli vuole inserire la propria esperienza in una più ampia corrente poetica europea. È il tempo della sua seconda raccolta, Le occasioni del 1939, dove, attraverso uno stile tendente all’alto, la parola si concentra sugli oggetti, caratterizzati da una forte tensione espressiva. La poesia mantiene ancor di più un tono alto quando la storia collettiva – la Seconda Guerra Mondiale – fa ingresso nei versi: con la terza raccolta del 1956, La bufera e altro, della quale nella biblioteca di Enrico Falqui è riemerso l’importante dattiloscritto 47 poesie, il senso di accettazione del destino umano diventa ancora più chiaro. Venuta meno ogni possibilità di speranza, attraverso le raccolte senili il poeta continua instancabilmente a gettare il proprio sguardo critico, a volte ironico, sul mondo e sulle sue continue trasformazioni. Tuttavia di fronte all’avvento di una società di massa la poesia non può che subire un abbassamento prosastico. Spinto in tutta la sua opera dalla volontà di conoscere il presente e di confrontare il proprio linguaggio con una tradizione poetica viva, Montale diviene un punto di riferimento imprescindibile per molti poeti del secondo Novecento. Nel 1975 gli viene conferito il premio Nobel per la Letteratura «per la sua poetica distinta che, con grande sensibilità artistica, ha interpretato i valori umani sotto il simbolo di una visione della vita priva di illusioni».