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Camillo Sbarbaro

Rimasto ai margini dell’esperienza de «La Voce», dopo la prima raccolta Resine del 1911 Sbarbaro mostra il suo riuscito “attraversamento” di d’Annunzio, del quale trova in Gozzano un valido esempio, con i versi di Pianissimo, pubblicato dalla Libreria della Voce nel 1914. Abbandonato ogni atteggiamento ironico, sceglie un verso piano e lineare, che tramite il prevalente uso dell’endecasillabo si apre alla prosa, e va alla ricerca di una parola sempre più spoglia. Affiora inoltre la particolare condizione del poeta, il suo sentirsi estraneo nei confronti del mondo che lo circonda. Sbarbaro, in quel continuo camminare come un «sonnambulo» per le vie deserte e immobili della città, non fa che rasentare la vita, la sfiora soltanto, consapevole che il suo destino è quello di restarne fuori. La città, con la sua grande quantità di gente che disorienta e spaventa, diviene lo specchio perfetto del non senso del reale, dell’esistenza problematica dell’uomo, ormai privo di certezze. Nel 1920 con la pubblicazione di Trucioli egli dà il via a una nuova prosa, a metà strada tra prosa e poesia, fatta di brevi notazioni e descrizioni. Dopo la mancata pubblicazione di Calcomanie nel 1938, raccoglie e fa circolare le sue prose prima in copie dattiloscritte inviate ai più stretti amici, tra cui Enrico Falqui, poi nel volume del 1948.
Nei primi anni del Novecento Genova e la Riviera ligure, a cui sono dedicate poesie come Voze e Liguria, divengono uno scenario importante per la diffusione della nuova poesia. La ricerca sbarbariana di una dimensione prosastica del verso e la condizione di aridità, di vuoto dell’esistere, aprono la strada alla poesia di Eugenio Montale, che dedicherà all’amico le poesie Caffè a Rapallo ed Epigramma degli Ossi di seppia